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- n. 4/06 -

Garzoni bellunesi a Venezia durante il 1700: le diverse tipologie

L’emigrazione dal Bellunese

La provincia di Belluno è tradizionalmente nota per la sua caratteristica di paese di emigranti.

"Ogni famiglia, dalla più povera alla più ricca, ha avuto emigranti […]. Emigrazione significa storia dei nostri padri. E queste "radici" sono degne di essere conosciute, non fosse altro perché, quasi sempre, emigrare ha significato – in passato – alleviare la fame di chi partiva e di chi restava. In molti casi ha significato il trampolino di lancio per un’esistenza più dignitosa e di maggior benessere economico per figli e nipoti, fino ai giorni nostri". (1)

Fin da bambini, abbiamo sentito parlare dei nostri nonni e bisnonni che, con la loro valigia di cartone, se ne partivano diretti verso città lontane, il più delle volte in paesi stranieri, alla ricerca di fonti di guadagno che non riuscivano a trovare nel luogo natio. Gli uomini si dedicavano ai mestieri più disparati: oltre a quelli, comunemente noti, legati alla cantieristica, sono degni di menzione, i gelatieri, grazie ai quali Belluno è conosciuta, anche oggi, in molti paesi esteri; i cosiddetti "Scòti", zoldani che, verso la metà dell’Ottocento, andavano a Milano durante la stagione invernale a vendere castagne cotte e pere; gli "squarador", che si recavano, prevalentemente in Romania a sagomare le piante dei boschi, e i seggiolai ambulanti, o "caregheta", certamente i più conosciuti, provenienti soprattutto dall’Agordino. (2) Quest’ultima attività risale certamente alla fine del ’700 e si sviluppò dapprima nei paesi di Gosaldo e Tiser, per estendersi poi ad altri luoghi dell’Agordino, in particolare a Rivamonte, dove, a causa dei fumi sulfurei che si sprigionavano dai forni delle miniere, i terreni diventavano sterili e l’agricoltura insufficiente al mantenimento delle famiglie; questo mestiere costituiva una valida alternativa al duro lavoro in miniera, anche se comportava il sacrificio di una vita itinerante, lontano da casa e dalla famiglia.

I seggiolai partivano tra la fine di agosto e l’inizio di ottobre, quando i lavori nei prati e nei campi erano quasi terminati e la legna per l’inverno era stata preparata; non tornavano che verso Maggio-Giugno dell’anno seguente, dopo aver girato intere province ed aver condotto una vita di stenti, cercando di risparmiare il più possibile, per la famiglia lontana.

A volte, questa emigrazione, da stagionale poteva trasformarsi in definitiva, in quanto i continui contatti con zone e culture diverse da quella del paese d’origine poteva cambiare la mentalità e il modo di essere degli itineranti, al punto da non farli sentire più a loro agio nei luoghi nativi. (3)

Una delle mete più consuete dei "caregheta" era sicuramente Venezia, dove già nel 1594 è attestata, nella parrocchia di S. Salvador, la presenza, tra gli immigrati, di Bortolomio, "conza carieghe" da Agordo (4); inoltre, Gaetano Zompini, nella sua opera Le arti che vanno per via nella città di Venezia, ci dà una realistica rappresentazione di un seggiolaio ambulante, proveniente dal Cadore, che si recava nella Dominante per esercitare il suo mestiere. (5)

Un’efficace descrizione della vita di questi lavoratori itineranti ce la fornisce Giovanni Grevenbroch:

"Noi intendiamo di estendere il fervore industrioso del povero popolo, che circonda la Terra di Agort nel Territorio Bellunese (non Friulese), stante che alcuni di quei Villici, massime nell’Inverno, obbligati dalla fame, abbandonano il proprio Nido, per ricoverarsi in sì felice Metropoli, dove mediante meccanico lavoro, secondo il loro basso intelletto, provvedono all’indigenza estrema e al mantenimento quotidiano […]. Tali sono gli Conza Careghe, Gente senz’Arte e senza altra attività, che di costruire Sedie d’ogni sorte, di legno di Salce, e trecce di paglia, tradotta da dolci Paludi. Costoro non eccedono il numero di cento, ne più di otto mesi a vicenda a Venezia dimorano, nelle Contrade di S. Luca, di S. Barnaba, e S. Maria Nova, vivendo con parsimonia, onde conservare il Denaro, in maniera che non si alimentano di altro, che di Polenta, cibo invero per necessità gradito ne’ nativi alpestri paesi". (6)

Notevole fu anche l’emigrazione di donne e bambini: le prime tra l’800 e il ’900, spesso si trasferivano in città come Milano, Bologna, Torino e Venezia a fare le "balie" o le domestiche (7), oppure andavano a fare le "Ciode" nel più vicino Trentino.

"Ciòde" e "Ciodéti" erano i termini coi quali si indicavano le donne e i ragazzini che si recavano, ogni primavera, in Trentino per svolgere lavori agricoli e non tornavano a casa che ad autunno inoltrato. (8)

L’emigrazione fu, dunque, un fenomeno di notevole rilevanza e che condizionò in maniera radicale la vita della città e del territorio, tanto che, nel 1966, si sentì l’esigenza di fondare un’associazione che fungesse da centro d’aggregazione e comunicazione tra i bellunesi sparsi nel mondo, che fornisse loro un valido aiuto nella difesa dei propri diritti e ne tutelasse la loro identità di emigranti; quella che oggi è conosciuta col nome di "Bellunesi nel mondo". (9)

Molti sono gli scritti che hanno analizzato il fenomeno migratorio nel Veneto e nel Bellunese, in particolare, ma questi interessano principalmente il periodo che va dal XIX secolo ai giorni nostri (10); eppure questo movimento di soggetti alla ricerca di un’occupazione era già consistente nei secoli precedenti, ma, forse per il suo carattere prevalentemente stagionale, era di difficile individuazione e quindi è stato poco studiato.

 

Emigrazione verso Venezia

Interessanti notizie, per quanto riguarda l’emigrazione bellunese nel Settecento, si possono ricavare dagli studi di Giovanni Caniato e Guglielmo Zanetti sull’arte degli squeraroli di Venezia (11), in quanto, dalle loro opere, emerge che una consistente percentuale di garzoni addetti a tale mestiere proveniva da varie località del Bellunese e da Zoldo in particolare.

Dati analoghi si ritrovano nell’opera L’arte dei calegheri e zavateri di Venezia tra il XVII e il XVIII secolo, nella quale si afferma che, analizzando la provenienza dei garzoni di questa corporazione nei quinquenni 1698-1702 e 1736-1740, la percentuale di quelli giunti da zone montane come Cadore, Agordino e Bellunese "sale al 43% nel caso dei garzoni assunti nel primo quinquennio e al 51% per quelli del secondo". (12)

Un’ulteriore conferma dell’abituale spostamento degli uomini della vallata bellunese verso Venezia, per motivi di lavoro ci è fornita dal saggio di Morena Lucchetta che, analizzando la situazione famigliare della comunità di Canale d’Agordo tra il Settecento e l’inizio dell’Ottocento, sottolinea come una buona percentuale di capifamiglia eserciti professioni inconsuete per questi luoghi montani, come "felzai da barche", "facchini d’Arsenale", "lavoranti di seta" e "sbiaccari".

Unica spiegazione possibile è il fatto che queste persone, pur mantenendo casa, famiglia e residenza nel Bellunese, esercitino la loro professione e dimorino a Venezia, tornando nella loro vallata solo nei mesi estivi per la fienagione e il lavoro nei campi.

"Questa comunità quindi, chiusa dal punto di vista geografico ed ambientale, è però aperta al mondo economico e sociale dello Stato di cui fa parte.

L’emigrazione vista da sempre come qualcosa di negativo può, in questo contesto, essere l’unico mezzo di sussistenza per le famiglie di questa valle. Ecco che, accanto alle attività legate ad una tradizione montana, il valligiano tende ad aprirsi e a imparare nuovi mestieri.

Tende cioè a migliorare le sue precarie condizioni di vita, mettendo a disposizione di altre comunità il suo lavoro, che diventerà l’unica risorsa di sussistenza della popolazione della valle, segnata dalle profonde crisi della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento". (13)

 

Precisazioni metodologiche

La mia ricerca prende spunto dall’indagine che Antonio Lazzarini ha condotto sui registri dei garzoni, contenuti nel fondo Giustizia Vecchia, conservato presso l’Archivio di Stato di Venezia. (14) Lo studioso ha preso in considerazione la documentazione relativa al periodo 1731-1750 ed ha sviluppato un’interessante analisi sulla presenza dei bellunesi a Venezia, basandosi, appunto, sui contratti stipulati tra datori di lavoro e garzoni, fonte privilegiata in quanto è quasi sempre riportato il luogo di provenienza degli assunti, almeno fino al 1760, quando questa preziosa informazione tende a diventare sempre più rara.

Da parte mia, ho cercato di approfondire questo argomento esaminando gli incartamenti che coprono l’arco temporale che va dal Gennaio 1703 al Maggio 1772 (secondo il calendario veneto che faceva iniziare l’anno il primo Marzo per concludersi a fine Febbraio), contenuti nelle buste 124, 125, 126 del fondo Giustizia Vecchia, e che riportano i contratti di garzonato relativi a buona parte delle arti, integrandoli, in alcuni casi, con altri documenti più esaustivi.

Non sempre, però, sono riuscita a rintracciare sufficienti dati che possano coprire, in maniera esauriente, l’intero periodo sopra citato, in quanto spesso, i contratti sono riportati in altre fonti che, in molti casi, non sono riuscita a reperire, o non sono per niente annotati.

Ho riunito i contratti di lavoro in tabelle, a seconda della professione, ed ho così individuato diciotto arti in cui la presenza di garzoni, provenienti dal Bellunese, è particolarmente rilevante, vale a dire: bombaseri, botteri, calegheri e zavateri, cappelleri, casselleri, fabbri, forneri, fustagneri, intagliadori, linarioli, luganegheri, marangoni, scaleteri, squeraroli, stramazzeri, tentori, tesseri e tornitori.

Infine ho confrontato i cognomi dei garzoni con quelli dei capi maestri delle singole arti (quando sono riuscita a trovarli), per rintracciare eventuali corrispondenze, parentele o altro; pochissime fonti riportavano, accanto al nome del capo maestro, la provenienza, per cui ho attribuito origine bellunese a quelle persone che esibivano cognomi ancor oggi diffusi nella nostra provincia, o presenti nelle liste di quei garzoni il cui luogo di nascita era attestato nel documento.

Ogni contratto riporta, con lievi variazioni, la medesima formula, ad esempio:

"24 Novembre 1732

Zuanne de Zuanne Dal Frano di S. Vido di Cadore di anni 13 in circa, s’accorda per garzon con Antonio Pellegrini stramazzer per anni cinque principiati il […] e falando alcun giorno sia tenuto riffar quel paron si offerisse insegnarli l’arte sua, lo tien in casa mondo e netto li fa le spese e di salario li dà ducati cinque all’anno. Piezo Zuanne Pompanin zavater in Calle Longa in forma". (15)

Come si può notare, questa formula ci fornisce molte notizie utili non solo per quanto riguarda la generalità e la provenienza del garzone, ma anche sugli obblighi reciproci tra il datore di lavoro e l’apprendista, consentendoci di conoscere più a fondo le consuetudini lavorative di quel tempo.

La prima indicazione interessante è sicuramente la precisazione dell’esistenza in vita o meno del padre del garzone, in questo caso espressa dal de davanti al nome, sostituito dal quondam quando il genitore risulti deceduto.

A volte mi è capitato di trovarmi di fronte alla difficoltà di capire se quel de significasse "figlio di" oppure fosse il prefisso di un cognome composto con un nome proprio (ad esempio De Mattio), vista la mancanza di un’ortografia corretta; dal mio studio mi è sembrato di capire che, in questi registri, sia riportata per prima la paternità e poi il cognome del garzone, per cui, in casi dubbi, ho usato questo criterio.

Anche comprendere i cognomi ha comportato un notevole sforzo, sia per la ricorrente indecifrabilità della grafia sia per il fatto che, spesso, sono scritti in dialetto, magari con l’aggiunta di doppie o apostrofi inesistenti e perciò ho dovuto far ricorso, in molti casi, al confronto con quelli diffusi ancor oggi per scioglierli; altre volte insorgeva anche la difficoltà di capire se diciture come cadorin o ampezzan fossero cognomi o denominazioni di origine.

I luoghi di provenienza dei garzoni vengono, in genere, indicati nelle fonti in base alla divisione amministrativa del territorio della Repubblica, a volte con la specificazione del paese, più spesso con l’indicazione della zona geografica corrispondente; per esigenze espositive io li ho così raggruppati:

- Agordo: comprende anche i paesi di Caprile, Alleghe, S. Tommaso e Cencenighe;

- Cadore: anche quando sono specificati, i paesi non sono stati trascritti;

- Canale d’Agordo: viene considerato a se stante anche se fa parte del Capitaniato di Agordo dal punto di vista amministrativo;

- Cividal de Belun: indica la città ed anche il Territorio Basso;

- Zoldo: anche quando sono specificati, i paesi non sono stati trascitti.

Pochi i contratti stipulati con ragazzi provenienti dall’Alpago ed ancor meno con i feltrini, probabilmente diretti verso altre località.

Molto numerosi appaiono, invece, i garzoni provenienti da zone inserite da secoli nei confini dell’Impero asburgico, ma che, nel Settecento, sembrano ancora gravitare nell’orbita veneziana per quanto riguarda il settore lavorativo: Livinallongo (Livinal longo o Vinal Longo), Colle S. Lucia ed Ampezzo.

L’età di assunzione dei garzoni variava da un minino di dieci anni fino ai diciotto (venti in qualche caso), con una percentuale maggiore della fascia d’età compresa tra i tredici e i quindici anni, anche se il fatto che molti ragazzi sono descritti come "d’età maggior" e l’aggiunta del "circa" accanto agli anni non consentono di calcolare con certezza l’età media.

La durata del periodo di garzonato era, in genere, di cinque anni che potevano anche diventare sei o sette per certe professioni (come ad esempio gli intagliadori), oppure ridursi a due o tre, forse nel caso di una particolare abilità dell’apprendista o se questi aveva precedentemente esercitato il medesimo lavoro presso un altro padrone, o più probabilmente, se era un figlio di un capo maestro. Il garzone aveva l’obbligo di recuperare ogni giorno di assenza dal lavoro, mentre il padrone era tenuto ad insegnargli il mestiere, ad ospitarlo nella sua casa, o comunque a fornirgli un alloggio, vitto e vestiario anche in caso di malattia; insomma avrebbe dovuto occuparsi di lui come un "buon padre di famiglia".

 

I compensi

Il salario, quando esisteva, era molto basso ed era pagato, di solito, annualmente; nei documenti ricorre spessissimo la somma di cinque ducati all’anno.

A volte i contratti riportano un compenso totale ("in tutto") che, probabilmente, veniva versato al termine dell’apprendistato; forse era un deterrente contro un’eventuale fuga da parte del garzone (visto che non erano poi così rare) o poteva servire per coprire eventuali danni causati da questo; ma sono solo mie ipotesi.

Un’altra modalità di pagamento era quella elargita settimanalmente, con un aumento piuttosto costante di circa una lira alla settimana ogni anno, come per l’aspirante tentor da guado Battista fu Antonio Mina, assunto come garzone il 25 Settembre 1727, con la promessa di un compenso di sei lire alla settimana per il primo anno, sette per il secondo, otto per il terzo e nove per il quarto ed ultimo anno. Oppure veniva stabilito un compenso giornaliero, come per il garzone Pellegrin di Bastian Cech di Canale d’Agordo, preso alle sue dipendenze dallo stampador Stefano Tramontin il primo Marzo 1731, per "30 soldi al giorno per i giorni di lavoro". (16)

Ho notato che, nei documenti da me consultati, queste inconsuete modalità di pagamento sono presenti soprattutto nelle arti dei tentor e degli stampador.

Chi non veniva retribuito in denaro poteva ricevere come corresponsione "una traversa", oppure "falda, scarpe e bereta", o "falda, scarpe e calze", il più delle volte solamente una di queste tre cose, in genere le scarpe; i padroni più generosi li fornivano al garzone "al bisogno", gli altri "una volta tanto".

Tra i più "fortunati" voglio citare il diciottenne Zuanne De Sabbe, assunto il primo Settembre 1708 dai forneri Zorzi Gasparin e Zuanne De Sabbe che riceve, come compenso, cinque ducati all’anno ed anche una traversa (17); purtroppo non sono riuscita a sciogliere il nome del padre, ma l’evidente omonimia col datore di lavoro indica una più che probabile parentela ed è forse dovuta a questo il miglior trattamento economico.

Anche Gio.Battista Adami di Cividal de Belun può benissimo essere considerato un privilegiato, visto che il salario pattuito col capo maestro Nicolò D’Adamo il 18 Luglio 1708 (data di assunzione) prevedeva "sette ducati all’anno e mantenerlo di scarpe" (18); anche in questo caso si può avanzare l’ipotesi di una qualche parentela, visto la somiglianza dei due cognomi e dato che, in questi incartamenti, sono frequenti l’alterazione dei termini ed errori di trascrizione

Un’altra ipotesi potrebbe essere che entrambe le famiglie degli stipulanti il contratto provengano dallo stesso paese di montagna (vista la somiglianza dei cognomi) e quindi l’esistenza di rapporti d’amicizia spiegherebbe questo miglior trattamento economico; tuttavia le mie restano supposizioni difficili da avvalorare.

Molte volte capitava che fosse il padre del garzone, o il garzone stesso, a dover corrispondere al padrone una somma in denaro o in beni di consumo sia per contribuire al mantenimento del ragazzo durante il periodo di apprendistato, sia perché gli fosse insegnato il mestiere.

Un esempio è il contratto di garzonato stipulato tra Lorenzo di Gio.Battista Vingontina dall’Ampezzo e Bernardo Zuliani fabricator da calze, il 23 Dicembre 1717, che stabiliva che il padre dell’assunto dovesse dare al padrone "un vitello salato ogni anno" (19); Mattio Diedi, tornitor d’avolio, chiede al garzone Giacomo di Simon De Gaspari, suo dipendente dal 18 Agosto 1728, la somma di "20 ducati in tutto" (20), mentre Nicola Picinali, marangon da fabriche, pretende dal garzon Zanmaria De Biasio "28 soldi al giorno per il suo alimento" (9 Gennaio 1712). (21)

 

I garanti

Quasi tutti i contratti di garzonato terminano con il pieggio, vale a dire il mallevadore, una persona che faceva da garante e che, probabilmente, doveva essere presente durante la stipula del contratto e fornire delle garanzie sulla serietà del nuovo assunto.

In moltissimi dei casi esaminati, il garante è il padre del garzone, altre volte può essere il fratello oppure lo zio; spesso queste parentele vengono specificate dalle fonti, ma, quando ciò non accade, sono facilmente deducibili dal nome del padre (nel caso di fratelli) o dalla corrispondenza dei cognomi, per altri legami di sangue. Vedi, a conferma di tale affermazione, il 30 Agosto 1725 Bastian di Lorenzo Sabbe, apprendista squerarol, appoggiato dal fratello Iseppo, forner (22), ed il primo Agosto 1737 il garzone Zuanne Valt di Apollonio, appoggiato da Silvestro Valt. (23)

Resta incerto se i garanti dimorassero e lavorassero a Venezia; potrebbe essere un’ipotesi plausibile, in quanto le generalità del mallevadore (che poteva essere più di uno) sono specificate nei dettagli e riportano anche la professione e, a volte, il luogo di lavoro: questo, secondo me, potrebbe indicare che chi si assumeva un tale incarico doveva essere facilmente identificabile e rintracciabile.

Ne cito uno come esempio: Zuanne Scarzanella, forner a S. Lio, è il fideiussore di Antonio di Simon Bonifacio, assunto il 12 Luglio 1730 dal forner Andrea Colussi. (24)

Un contratto, tra quelli esaminati, che potrebbe dare qualche indicazione sulla provenienza del garante, è quello del 13 Ottobre 1742 tra Mattio di Bernardo Renon da Agordo e il tesser da tela Francesco Pasquin, che riporta come pieggio Francesco di Giovanni Renon da Agordo (25); ma, anche in questo caso, con le informazioni a mia disposizione, non mi è possibile stabilire con certezza se l’agordino fosse ancora residente al paese natale o si fosse trasferito nella città lagunare, magari per lavoro.

In un buon numero di accordi il nome del garante è preceduto dal titolo di domino, vale a dire capo maestro; ciò significa che, spesso, era una persona con una carriera consolidata, e quindi di una certa rispettabilità, quella che si assumeva l’onere di garantire per un garzone.

Capita sovente che la stessa persona faccia da mallevadore a più garzoni, come domino Battista Scola, stampador in rame, che il primo Dicembre 1733 garantisce per Tommaso Deola, aspirante occhialer e per Gio.Battista Ganz, aspirante casseler, entrambi di Canale d’Agordo; il 30 dello stesso mese lo fa per Piero Dalla Sega, anch’egli di quello stesso paese, ed anche in data 3 Aprile del 1734 troviamo Battista Scola, sempre nelle vesti di garante, per Lucian fu Antonio Cech, naturalmente di Canale d’Agordo (26); inutile citare tutti i contratti in cui lo Scola è presente (sono davvero molti), basti ricordare che tutti i garzoni provengono dallo stesso paese.

Questi dati mi permettono di avanzare, senza troppi azzardi, la supposizione che anche il capo maestro Scola fosse originario di Canale d’Agordo (del resto questo è un cognome ancora molto diffuso da quelle parti) e che avesse dei rapporti di amicizia, o comunque di conoscenza, con questi garzoni o con le loro famiglie e, quindi, cercasse di aiutarli nell’ardua impresa di trovare lavoro in un paese sconosciuto.

Difatti, in parecchi contratti, ho notato che i cognomi dei garanti, e tante volte anche dei datori di lavoro, sono tipici, o comunque molto diffusi, nella provincia di Belluno e questo non può che significare la loro comune origine montana: il 02 Gennaio 1707 Nicolò fu Liberal Panciera si accorda col tentor Nicolò Panciera, il pieggio è Carlo Panciera (27); in questo caso sono, molto probabilmente, anche parenti.

Ad avvalorare quanto appena affermato contribuiscono le precisazioni, contenute in taluni accordi, che specificano la parentela tra garzone e datore di lavoro oppure la provenienza dallo stesso paese (o comunque dal territorio bellunese): ad esempio il casseler Zuanne Serafin prende a lavorare nella sua bottega il fratello Antonio il 18 Novembre 1712, (28) mentre presso lo zavater Domenico Gaspari da Livinallongo troviamo impiegato come garzone, dal 20 Novembre 1713, Marco Da Rozze da Agordo. (29)

 

Vita dura

La vita di questi garzoni deve essere stata tutt’altro che facile: duro lavoro scarsamente, o per niente, retribuito; forse cibo non proprio abbondante e un alloggio di fortuna visto che, spesso, i capi maestri dovevano ospitare più apprendisti; la lontananza da casa e dagli affetti più cari; il trauma del trasferimento in una società cittadina e lagunare, che niente aveva a che fare con l’ambiente bellunese e la rassicurante presenza dei monti dove erano cresciuti.

Lo dimostrano tante annotazioni poste a lato dei contratti di lavoro, che stanno ad indicare che l’apprendista era scappato: Zuanne Perini, assunto il 27 Febbraio 1713,

"dice il paron esserli fuggito il sudeto garzon il 16 Febbraio 1715 la prima volta, la seconda il 17 Luglio 1716, la terza il 23 Agosto e non esser più tornato". (30)

Come Zuanne, molti garzoni scappano più volte dal lavoro, ma poi, a distanza di qualche giorno, ritornano; alcuni, dopo la fuga, continuano il loro praticantato ma la maggior parte si rende definitivamente irreperibile.

In genere i padroni aspettavano un certo periodo di tempo prima di comunicare la fuga ai Provveditori alla Giustizia Vecchia (vedi il 29/05/1734 il contratto di Tommaso De Carli che se n’era andato già da due mesi quando, l’11 Ottobre 1737, il maestro ne fa annotare la dipartita e quello del 31 Luglio dello stesso anno del praticante fustagner Battista del fu Carlo da Livinallongo scomparso già tre mesi prima della dichiarazione) (31), probabilmente perché era un episodio che si ripeteva frequentemente e confidavano in un repentino ritorno del garzone; forse la formula inserita nell’accordo "falando alcun giorno si tenuto rifar quel paron", era prevista anche per questa eventualità.

Un episodio deve essere citato a favore dei datori di lavoro: Alessandro Lorden, capo maestro fabbro, riaccoglie per tre volte il garzone fuggito Zanmaria Talamin (alle sue dipendenze dal 10 Novembre 1707) finché, trovatolo che rubava, lo licenzia. (32)

Ma questo fatto può anche essere la spia delle davvero misere condizioni di vita di questi ragazzi, forse costretti a ritornare al lavoro (una volta fuggiti) dal padre o dal garante, messi di fronte ai bisogni della famiglia lasciata al paesello, e poi, incapaci di resistere ulteriormente, scappavano di nuovo o, come Zanmaria, rubavano per procurarsi ciò che non riuscivano a guadagnare.

Come si vede le annotazioni contenute in questi registri si prestano a diverse interpretazioni; impossibile affermare con certezza quale sia la verità.

Meno frequenti, ma pur sempre degne di menzione, sono le note (sempre apposte a lato dell’accordo a cui si riferiscono) che indicano il licenziamento del garzone. Di solito non sono indicate con chiarezza le ragioni di un tale provvedimento, ma appare la formula "lo licenza e ciò stante le cause moventi l’animo suo", in qualche caso con l’aggiunta di "e consegnato a suo padre", forse per esimersi da ogni responsabilità.

Questo è quello che accade a Zanmaria Nagol da Agordo, preso alle dipendenze del fustagner Gerolamo Venudo il 28 Gennaio 1750 e licenziato il 15 Aprile 1751 (33); forse si tratta di una casualità, ma ho notato, nella stessa pagina, il contratto di un garzone (di cui purtroppo non ho annotato le generalità perché non bellunese), assunto dallo stesso capo maestro, che era fuggito. Probabilmente i due episodi non sono correlati, ma la mia fantasia mi ha suggerito la possibilità che il bellunese abbia reagito in qualche modo alle dure condizioni a cui era sottoposto e sia stato così licenziato, mentre l’altro, forse di carattere più mite, abbia preferito la fuga.

Dopo questa panoramica generale sulle innumerevoli informazioni che si possono ricavare da un accordo di garzonato, poniamo attenzione alle arti in cui più nutrita era la presenza degli apprendisti bellunesi, nel periodo considerato.

Ho esaminato circa 2400 contratti di lavoro concernenti l’impiego di bellunesi nella città lagunare: alcuni ho dovuto tralasciarli perché illeggibili a causa del deterioramento del manoscritto o per l’incomprensibilità della grafia, altri non riportavano il luogo di provenienza del garzone e, spesso, ho preferito non trascriverli, nonostante il cognome indicasse una probabile origine bellunese.

Le professioni più "affollate" di garzoni bellunesi: sono diciotto, ma ve ne sono molte altre in cui è segnalata la presenza dei miei compaesani.

 

I mestieri più ambiti

Solo lo studio di altre fonti consentirebbe di inserirne altre tra i mestieri più "ambiti" dai montanari.

Nei contratti di garzonato presi in considerazione i mestieri sono così suddivisi:

Bombaseri 81

Botteri 21

Calegheri e Zavateri 350

Capeleri 52

Casseleri 103

Fabbri 46

Forneri 447

Fustagneri 87

Intagliadori 16

Linarol 63

Luganegheri 134

Marangoni 117

Scaleteri 191

Squeraroli 160

Stramazzeri 67

Tentori 139

Tesseri 31

Tornitori 62

Come si può facilmente notare i settori in cui erano maggiormente concentrati i garzoni bellunesi, sono alcune arti di vittuaria come i forneri, i luganegheri e gli scaleteri; arti legate alla produzione e alla lavorazione di tessuti ed abbigliamento in genere, come i calegheri, i tentori, i bombaseri, i fustagneri, gli stramazeri, i tesseri, i capeleri; ed infine arti legate alla cantieristica, all’edilizia e alla lavorazione del legno e del ferro come, ad esempio, marangoni, squeraroli, casseleri, fabbri ed altro.

 

I forneri

L’arte dei forneri (fornai) è sicuramente quella che accoglie il maggior numero di garzoni bellunesi, difatti, da sola, raggruppa quasi il 25% del totale dei contratti esaminati.

Su 445 ragazzi accordatisi come garzoni, solo 12 risultano essere fuggiti e questo può certamente derivare dal mancato aggiornamento dei contratti, ma anche stare a significare che il trattamento loro riservato dai datori di lavoro era accettabile.

Salta subito agli occhi il fatto che i cognomi di molti capi maestri, che assumono questi garzoni, sono di indubbia origine bellunese, anche se solo per uno di loro, Giovanni Molin, tale informazione è confermata nel documento; difatti cognomi come Zuliani, Colussi, Costa, Soramaè, Panciera, Dalla Scola, Dall’Acqua, Longiega, Cucco, Scarzanella, per non citarne che alcuni, sono ancora oggi molto diffusi nella provincia di Belluno.

Molti sono gli accordi tra persone con lo stesso cognome ed è molto probabile che appartenessero allo stesso casato o, in ogni caso, avessero legami di parentela; forse per questo pochi abbandonavano il praticantato prima di averlo terminato: essere alle dipendenze di un consanguineo può comportare (ma non è garantito) un miglior trattamento ma anche maggior obblighi, soprattutto morali.

Nel periodo considerato emerge che gli aspiranti forneri provenivano soprattutto da Livinallongo (27%) e da Cividal di Belluno (21%), seguiti a breve distanza dagli zoldani (18%); percentuale non molto inferiore per quelli originari di Colle Santa Lucia (11%) e di Selva di Cadore (10%).

Tali dati ci permettono di individuare nella parte alta dell’attuale provincia di Belluno la zona di maggior afflusso dei garzoni forneri nel Settecento; forse questi ragazzi andavano a lavorare da parenti ormai saldamente insediatisi a Venezia, oppure la popolazione dei territori montani aveva una particolare abilità in tale mestiere, come sostiene Lazzarini, nel suo saggio, quando afferma che:

"… sin dai tempi antichi, quando la popolazione di Venezia cominciò a crescere considerevolmente, i vivandieri e fruttivendoli chiamarono in aiuto uomini di una zona ben definita, comprendente "Vinallongo, Col Santa Lucia, Selva di Cadore, Solt e Rechiavè", per costruire i forni e fare il pane". (34)

Confrontando i nomi dei garzoni con quelli dei capi maestri di qualche decennio dopo (riportati in appendice), sono riuscita ad individuarne alcuni che ricorrono in entrambi gli elenchi: Zuanne Soppelsa, assunto il 15 Gennaio 1748 potrebbe essere lo stesso che, tra il 1788 e il 1797 risulta esercitare come maestro a San Polo; Francesco Longiega, garzone dal 31 Maggio 1748, potrebbe essere il medesimo che tiene bottega a San Geremia ed è catalogato tra i forestieri (difatti il garzone era originario di Livinallongo, allora sotto l’impero asburgico).

Ma anche per Iseppo Pezzei, Lorenzo Dell’Andrea, Zuanne Colussi si potrebbe affermare la stessa cosa: l’omonimia era, allora, certamente molto più diffusa che ai nostri tempi ma sono troppi i cognomi bellunesi ricorrenti nei due elenchi, per pensare ad un evento casuale.

 

I luganegheri

L’arte dei luganegheri (salsicciai e pizzicagnoli) a Venezia, nel Settecento, vede una folta concentrazione di emigrati chiavennaschi che esercitano tale mestiere e ne hanno assunto una sorta di monopolio (35); numerosi, però, sono anche i bellunesi, che provengono soprattutto dal Cadore (39% dei contratti bellunesi esaminati) e da Cividal di Belluno (27%).

Un interessante documento ci fornisce il luogo di nascita e la paternità di un certo numero di capi maestri, classificati come cadorini.

Oltre a confermare la mia ipotesi che alcuni garzoni, partiti dalla zona di Belluno, fossero riusciti a "far fortuna", o comunque a migliorare la loro condizione economica, a Venezia (come Battista di Antonio Giolai, nato in Cadore da padre cadorin che aveva una bottega sua alla Pietà), sono degne di attenzione le notizie riguardanti altri due capi maestri, Bortolo Ambrosoni e Domenico Franceschi, entrambi nati a Venezia "da padre cadorin", ambedue con bottega propria.

Questo mi porta a credere che i loro padri fossero emigrati da giovani (probabilmente per fare i garzoni) nella Dominante e che, poi, vi si fossero stabiliti, forse definitivamente, sposandosi con una ragazza del posto oppure fatta venire dal paese natale.

Anche per i luganegheri ho trovato delle corrispondenze tra nomi presenti negli elenchi dei garzoni e in quelli dei capi maestri, come Antonio Murer, Pietro Follador, Bortolo Dal Negro, per fare un esempio.

 

I scaleteri

Anche gli scaleteri (pasticcieri e ciambellai) costituiscono una delle arti in cui la presenza degli emigranti dolomitici è decisamente consistente e la stragrande maggioranza di questi (il 70%) proviene da una zona ben precisa del bellunese: il Cadore.

Si deve notare però che del 19% di garzoni non è nota la provenienza, ma i cognomi indicano una sicura origine bellunese; per alcuni potrei anche azzardare cadorina.

Come per le altre due professioni esaminate sopra, il confronto con la tabella dei capi maestri dell’arte ha dato buoni risultati: oltre a dover segnalare l’inusuale presenza di una donna (che ha due cognomi comuni in Cadore), molti maestri hanno indicata, accanto al nome, la provenienza del Cadore; uno addirittura, Daniele Giacchetti, è morto là (si era, forse, ritirato al paese d’origine una volta raggiunta l’età avanzata?).

 

I tempi

Per quanto riguarda le variazioni dei flussi migratori nel tempo, possiamo notare che i forneri giungono più numerosi in laguna nel periodo 1710 – 1719 e ancor di più nel 1730 - 1739, pur rimanendo numerosi fino alla fine del 1750.

I luganegheri mostrano un picco straordinario nel 1730 - 1739, che si abbassa, ma non di molto, nel decennio successivo e, dopo un periodo di bassa affluenza, riprendono, se pur in numero molto ridotto, tra il 1770 e il 1779.

I dati che ho raccolto per gli scaleteri partono dal 1740 ed attestano che questi sono numerosissimi soprattutto tra il 1760 e il 1769, ma la loro presenza rimane considerevole, pur se in contrazione, fino a tutto il 1779.

 

Manifattura tessile e abbigliamento

Il settore della manifattura tessile e dell’abbigliamento vede impiegati numerosi garzoni, addetti a mestieri diversi, che sono emigrati dal territorio bellunese; in particolare spicca l’arte dei calegher e zavateri (calzolai e ciabattini) che, nel periodo da me esaminato (in questo caso 1700 – 1740), conta ben circa 350 apprendisti. Provengono, per il 35%, dal Cadore e per il 28% dal territorio di Cividal di Belluno e per il 9% dall’Ampezzo.

I Giustizieri Vecchi ordinarono, nel 1695, che alcune arti, tra cui quella degli scaleteri e dei calegheri e zavateri, dovessero tenere libri distinti dalle altre corporazioni per registrare i propri contratti di garzonato (36); ho consultato questi documenti per il periodo sopra indicato, ma risulta un "buco" negli anni tra il 1723 e il 1735, per cui le considerazioni sull’afflusso potrebbero risultare poco attendibili.

Per quanto riguarda il periodo successivo, dal 1750 il numero dei contratti in cui le provenienze non sono specificate, diventa molto alto, tanto che, dal 1760 circa, questa preziosa informazione scompare quasi del tutto.

Qualche dato, per il periodo tra il 1741 e il 1750, possiamo ricavarlo dallo studio di Andrea Vinello, che ha calcolato, in percentuali, i dati di provenienza dei garzoni lavoranti a Venezia, per alcuni quinquenni campione. (37) Notiamo che, tra il 1740 ed il 1745, su un totale di 188 contratti esaminati, il 9% proviene da Belluno, il 5,3% dall’Agordino, il 3,7% dall’Ampezzo e il 10,6% da altre zone del Cadore; nel quinquennio 1746-1750 i dati sono: 10% da Belluno, 3,5% dall’Agordino, 7,6% dall’Ampezzo e 5,9% da altre zone del Cadore.

Considerevole, dunque, l’affluenza dei bellunesi in laguna anche in questi anni, soprattutto dalla città capoluogo e dal Cadore (come era emerso anche nell’intervallo cronologico da me studiato), anche se, nell’ultimo periodo, vi è una significativa flessione di questi ultimi.

Da tutte queste informazioni si può certamente affermare che l’attività calzaturiera era una di quelle più praticate dai garzoni provenienti dal Bellunese: lo dimostrano l’alto numero di contratti (ben 350), registrato nel breve periodo tra il 1700 e il 1740 (ancora più significativo se si considera il "buco" di 12 anni), e le numerose botteghe di capi maestri, con cognome chiaramente montanaro, distribuite un po’ in tutti i sestieri, nel 1788.

 

I tentori

Altro mestiere piuttosto ambito dai garzoni di montagna era il tentor (tintore), che poteva essere da guado (pianta usata per tingere di giallo) o da seda; i ragazzi assunti sono nati a Belluno e nel territorio circostante per il 45%, mente per il 44% sono originari dello Zoldano. Arrivano in buon numero in laguna dal 1700 al 1719 e, dopo un notevole calo tra il 1720 e il 1729, raggiungono la loro punta massima nel decennio 1740 – 1749.

Vi erano, inoltre, 52 garzoni capeleri (facevano cappelli); 31 tesseri (tessitori), divisi in da tela e da seda; 87 fustagneri (con i quali ho inserito anche i tesseri da fustagno); 63 linaroli, 67 stramazzeri (fabbricavano materassi di lana e coperte imbottite) e 81 bombaseri (addetti alla prima lavorazione del cotone, la battitura del greggio, per prepararlo alla filatura).

I tesseri non sono molti, nonostante questa fosse una manifattura con ancora un notevole numero di addetti a Venezia nel Settecento, e, a parte il 33% che arrivava da Cividal di Belluno e il 13% dal Cadore, provenivano un po’ da tutta la provincia.

Ho, però, individuato un buon numero di capi maestri, certamente d’origine bellunese, che esercitavano tale professione tra il 1702 e il 1792.

Forse lo scarso numero degli accordi di garzonato può essere spiegato dal fatto che gran parte della manodopera dei maestri tesseri veniva fornita dai famigliari (in misura maggiore che in altre professioni), che non necessitavano di tale periodo di apprendistato visto che imparavano il lavoro in casa, fin da piccoli nel caso dei figli, mentre le moglie erano spesso scelte perché esperte di quello stesso mestiere: "un matrimonio con una tessitrice esperta era considerato un buon investimento e un’occasione per l’ampliamento della bottega". (38)

I fustagner provengono per il 43% da Canale d’Agordo e per il 39% da Cividal di Belluno, mentre gli stramazzeri per il 35% dalla città capoluogo e dintorni, il 18% da Canale e il 15% dal Cadore; infine i bombaseri sono ben il 58% di Belluno e dintorni e il 27% da Canale d’Agordo. A sostegno di tali dati cito ancora Morena Luchetta che, nel suo studio nominato sopra, afferma che a Canale d’Agordo, nel 1811, c’erano ancora 25 stramazeri e 18 bombaseri.

 

Garzoni per cantieristica

Per concludere uno sguardo ai lavori legati all’edilizia, alla cantieristica e alla lavorazione di ferro e legno.

I garzoni accordatisi con i marangoni (falegnami e carpentieri) sono parecchi, specializzati, in prevalenza, nella costruzione di remi (da remezzi) e di case (da fabriche), ma i dati da me raccolti sono limitati agli anni dal 1700 al 1724 in quanto, nei registri della Giustizia Vecchia da me consultati, non ne ho trovati altri. Nonostante ciò è possibile affermare che questa professione accoglie il 30% di apprendisti oriundi del Cadore, il 29% di Cividal di Belluno, e il 22% dell’Ampezzo; da segnalare che, su 117 garzoni assunti, ben 8 non hanno portato a termine il contratto perché "fuggito e più tornato" e ciò può essere stato determinato anche dalla lunghezza dell’apprendistato che, per questo mestiere, andava dai sei ai sette anni.

Più di cento, invece, i capi maestri (sempre individuati dal cognome) di origine bellunese, scovati nei registri dell’arte dal 1709 al 1780: appare subito evidente che sono quasi tutti dediti alla costruzione di case, mentre i cognomi più ricorrenti sono i soliti Costantini, Panciera, Barbon, De Luca, Pina, Tomasi, Dal Fabbro, Zuliani.

Un’arte che mi ha molto colpito è stata quella degli intagliadori, nella quale mi sono stupita di trovare apprendisti bellunesi che, vista la vicinanza ai boschi, ritenevo esperti nella lavorazione del legname. Non ho rinvenuto molti contratti (forse si trovano in altri documenti), ma i sedici trovati mi hanno permesso di ottenere qualche informazione su una professione certamente qualificata per la sua componente artistica, essendo legata all’industria dei mobili e dei quadri.

A riprova, nessuno dei garzoni citati in questi accordi riceve un compenso di qualche genere, anzi, in alcuni casi, è il padre a dover corrispondere al padrone una somma in denaro: Iseppo Berton riceve da Lorenzo Nardi, genitore di Pietro, 45 ducati "una volta tanto". (39)

Questi contratti coprono un periodo che va dal 1706 al 1770 e mostrano una concentrazione di presenze tra il 1740 e il 1770.

Del 32% dei garzoni non è dato di sapere la provenienza, anche se i cognomi non lasciano molti dubbi; il 31% è originario del territorio di Cividal di Belluno e il 19% dall’Ampezzo. Più numerosi i capi maestri probabilmente bellunesi, tra i quali penso di aver ritrovato almeno un garzone: Cristoforo Calegari apprendista nel 1749 può essere lo stesso che esercita come maestro nel 1774; ci sono, poi, due Tommaso Panciera, uno garzone nel 1735 e l’altro capo nel 1742, ma forse non sono la stessa persona. E il padre del Tommaso garzone, Valerio Panciera, è lo stesso, maestro nel 1786, oppure è un altro caso di omonimia? Probabilmente sì, ma allora, forse, erano parenti.

Come si vede non è per niente semplice riuscire a seguire con sicurezza la carriera di un garzone, in quanto mancano dati certi e i frequentissimi casi di omonimia sicuramente non aiutano a chiarire la situazione.

Gli squeraroli che giungono a lavorare in laguna arrivano soprattutto da Zoldo (47%), come dimostra il lavoro di Caniato già citato, e mantennero un’affluenza costante e rilevante sicuramente fino al 1779, anche se sappiamo che le famiglie di origine zoldana dei Casal, dei Battistin e dei Tramontin, senza dimenticare il famoso scultore del legno Valentin Panciera (un omonimo del quale si trova sia nei contratti di garzonato che tra i maestri), continueranno ad essere indiscusse protagoniste nella fabbricazione delle migliori barche di Venezia per tutto l’Ottocento. (40)

Molto numerosi sono anche altri lavoratori del legno, i casseler, anch’essi apprendisti per sei anni, la maggior parte dei quali partiva dal Cadore (41%), seguita da un 19% da Belluno e dintorni; anche per tornitori e fabbri la fascia più consistente è di origine cadorina, il 50% per i primi, addirittura il 56% per i lavoratori del ferro, mentre un 16% viene da Cividal di Belluno per entrambe le professioni.

Infine i botteri, in numero non molto rilevante, ma soprattutto ampezzani e da Belluno di un buon 29% non si conosce il luogo di nascita.

Dunque, per molti mestieri, possiamo individuare una precisa zona del Bellunese dalla quale provengono la maggior parte dei garzoni, una sorta di area specializzata nel fornire apprendisti di un determinato mestiere. Ed ecco, allora, che gli aspiranti squeraroli sono zoldani, i tornitori, gli scaleteri, i casseleri, i fabbri vengono dal Cadore, mentre stramazzeri e bombaseri sono da Cividal di Belluno, i fustagneri da Canale d’Agordo e da Cividal di Belluno, i botteri dall’Ampezzo, i luganegheri dal Cadore e da Belluno. Per le restanti arti le percentuali non sono così ben definite da poter individuare un preciso luogo di provenienza dei garzoni.

Analizzare l’emigrazione nel tempo è piuttosto rischioso, visto che i periodi considerati spesso non coincidono per tutte le arti studiate e molti sono parziali; nonostante ciò potrei azzardare alcune osservazioni.

L’arte dei forneri è sicuramente la più attendibile visto il gran numero dei contratti analizzati e il lungo arco temporale che questi ricoprono, dal 1700 al 1779 si possono individuare tre periodi di grande afflusso: 1710 – 1719, 1730 – 1739 e, anche se in misura leggermente inferiore, 1740 – 1749. Anche per casseler e tentor dispongo di un sufficiente numero di dati, che coprono lo stesso periodo, ed anche qui si possono notare degli aumenti dei contratti nel 1710 – 1719, nel 1730 – 1739 e, soprattutto, nel 1740 – 1749.

 

Le altre arti

Uno sguardo generale alle altre arti prese in considerazione mi porta ad individuare nel decennio 1710 – 1719 e nel periodo dal 1730 al 1750 i momenti in cui i flussi migratori si sono fatti particolarmente intensi; in alcune corporazioni come linaroli, squeraroli ed intagliadori il picco di massima affluenza è stato tra il 1750 e il 1759.

Queste osservazioni potrebbero indicare che, nei periodi individuati sopra, la montagna attraversò delle crisi di produzione, dovute forse a condizioni climatiche sfavorevoli (particolarmente grave risultò l’inondazione del 1748), per cui la già poco florida agricoltura non riusciva più a sfamare tutti.

Oppure possono essere stati periodi in cui la popolazione era particolarmente numerosa, soprattutto in fasce d’età come l’adolescenza, perciò l’emigrazione aumentava notevolmente; non si può, inoltre, escludere che tali flussi fossero determinati dalle esigenze del mercato veneziano e perciò i picchi in certe professioni, in ben determinati periodi, possono essere dovuti ad una maggior richiesta di manodopera.

Nel considerare quanto detto sopra, bisogna tener conto del fatto che spesso i documenti riportano dei vuoti cronologici considerevoli e che molti contratti sono contenuti in fonti diverse; che la patria dei ragazzi assunti molte volte non è indicata o è incomprensibile, che probabilmente tantissimi garzoni non erano registrati o i loro dati non sono scritti correttamente; la dicitura Cividal di Belluno, poi, comprende un’area molto vasta e potrebbe addirittura includere fanciulli che provenivano dall’Agordino, da Zoldo, dall’Alpago o dal Longaronese.

Tenuto conto di tutte queste incertezze, ho cercato di fornire un’idea dei flussi migratori dei garzoni, diretti dalle montagne bellunesi verso Venezia nel Settecento; un movimento di persone che non va certo ignorato e sottovalutato, vista la sua consistenza, per gli effetti che ha sicuramente prodotto nella vita e nell’economia delle nostre Dolomiti.

L.M.

 

Note

(1) pocchiesa, fornaro e vio, Piccole grandi storie..., p. 16.

(2) pocchiesa, fornaro e vio, Piccole grandi storie... , p. 88-95, 114-119, 142-145, 202-215.

(3) S. C. Re, Seggiolai dell’Agordino, Sedico 2001, p. 5-20.

(4) Knapton m., Tra Dominante e dominio (1517-1630), in: Cozzi g., Knapton m. e Scarabello g., "La Repubblica di Venezia nell’età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica", Torino 1992, p. 286.

(5) Zompini g., Le arti che vanno per via nella città di Venezia, Milano 1980, p. 5.

(6) Grevenbroch g., Gli abiti de veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII, Venezia (1754-60), stampa Venezia 1980; l’opera originale è stata realizzata tra il 1754 e il 1760, p. 79.

(7) Pocchiesa, Fornaro e Vio, Piccole grandi storie... , p. 182-191.

(8) Todesco d., La vita delle ciòde in Trentino e l’Ufficio del Lavoro del Comune di Trento, in: Todesco d., Berloffa d., De Benedet p. e Fontana l., "Ciòde e ciodéti, un’emigrazione stagionale di donne e ragazzi dal Bellunese al Trentino", Feltre 1995, p. 9-12.

(9) 1966-1986: vent’anni di vita della Associazione Emigranti Bellunesi, a cura dell’AEB, Belluno 1986.

(10) Per un approfondimento relativo all’emigrazione locale in questo periodo vedi: Un altro Veneto. Saggi e studi di storia dell’emigrazione nei secoli XIX e XX, a cura di Franzina e., Padova 1983; Franzina e., Storia dell’emigrazione Veneta. Dall’unità al fascismo, Verona 1911; Modesti f., Emigranti Bellunesi dall’800 al Vajont: sfruttamento, burocrazie, culture popolari, Milano 1978; Vecellio p., Il fenomeno migratorio nel Bellunese alla fine del secolo scorso, Belluno 1984.

(11) Arte degli squerarioli, a cura di Caniato g., Venezia 1985; Caniato g., Maestranze zoldane a Venezia, in: "Dai monti alla laguna", p. 229-236; Zanelli g., Squeraroli e squeri, Venezia 1986, p. 7-35.

(12) Vianello, L’arte dei calegheri..., p. 77.

(13) Luchetta m., La famiglia nella comunità di Canale d’Agordo tra XVIII e XIX secolo, "Archivio veneto", CXXIII, s. V, 173 (1992), p. 72-73.

(14) Lazzarini a., Movimenti migratori dalle vallate bellunesi tra Settecento e Ottocento, "Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore", LXVIII, 298 (1997), p. 43-61.

(15) A.S.V., G.V. b. 125/180.

(16) A.S.V., G.V. b. 125/180.

(17) A.S.V., G.V. b. 124/177.

(18) A.S.V., G.V. b. 124/177.

(19) A.S.V., G.V. b. 125/179.

(20) A.S.V., G.V. b. 125/180.

(21) A.S.V., G.V. b. 125/178.

(22) A.S.V., G.V. b. 125/180.

(23) A.S.V., G.V. b. 126/181.

(24) A.S.V., G.V. b. 125/180.

(25) A.S.V., G.V. b. 126/181.

(26) A.S.V., G.V. b. 125/180.

(27) A.S.V., G.V. b. 124/177.

(28) A.S.V., G.V. b. 125/178.

(29) A.S.V., G.V. b. 138/190.

(30) A.S.V., G.V. b. 125/179.

(31) A.S.V., G.V. b. 125/180.

(32) A.S.V., G.V. b. 124/177.

(33) A.S.V., G.V. b. 126/181.

(34) Lazzarini, Movimenti migratori..., p. 51.

(35) Bovolato, L’arte dei luganegheri..., p. 117-133.

(36) Vianello, L’arte dei calegheri..., p. 67-68.

(37) Vianello, L’arte dei calegheri..., tabella 3.3, p. 70.

(38) Della Valentina m., Operai, mezzadi, mercanti.Tessitori e industria della seta a Venezia tra ’600 e ’700, Padova 2003, p. 53-57.

(39) A.S.V., G.V. b. 126/181.

(40) Caniato, L’arte degli squerarioli, p. 107-114.

 

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